31 Agosto 2012
Paolo Bracalini per "il Giornale"
Quando rispuntano i misteri stelle e strisce di Di Pietro lui tira
fuori la battuta: «Mi avete scoperto, sono James Tonino Bond». I viaggi
americani, e non da turista, di Antonio Di Pietro, punteggiano la sua
parabola da pm a politico, dai primi anni 90 (prima e durante mani
pulite) al 2000 con la neonata Italia dei valori. Prima l'ex
ambasciatore Usa Reginald Bartholomew poi l'ex console Peter Semler,
intervistati dalla Stampa, hanno raccontato i rapporti confidenziali tra
la diplomazia americana in Italia e il pm di Mani pulite. Semler
accenna anche a un primo viaggio di Di Pietro negli Usa, organizzato
dall'Usia (United States Information Agency), un ente governativo. Siamo
nell'ottobre del 1992.

Cosa va a fare negli Usa e chi incontra? «Di Pietro ci ha chiesto di
mantenere il riserbo sui suoi movimenti» spiegò Bill Reinckins, uno dei
funzionari dell'Usia. In quel viaggio (di oltre due settimane...) Di
Pietro interrogherà un costruttore chiamato in causa da Salvatore
Ligresti, ma farà anche dell'altro. Incontri di alto livello, magistrati
americani e capi del Fbi, «si dice che venga ospitato anche da quelli
della Kroll, la superagenzia di investigazioni private che da sempre
lavora anche per l'intelligence Usa» scrive l'ex amico (ora in causa)
Mario Di Domenico nel suo libro.

I connazionali che lo riconoscono sulla Quinta strada con un hot dog
fumante in mano lo fermano per gli autografi. Nel '92 Di Pietro non è
solo famoso, è un eroe nazionale, «un modello per i 30enni» scrive
Famiglia cristiana. Gli americani se lo studiano bene, vogliono sapere
chi è e cosa vuole fare. Due anni dopo, nel '94, qualche mese prima di
abbandonare la toga, Di Pietro è ancora in volo sull'Atlantico. Stavolta
è ospite ufficialmente della New York University, che lo ha invitato a
tenere una conferenza su «L'evolvere dei sistemi di corruzione nella
moderna democrazia». Ma anche quel viaggio, che lo porterà poi in
California, è l'occasione per incontri istituzionali.

I nomi che si fecero sono quelli di Rudy Giuliani e Mario Cuomo,
sindaco e governatore di New York, Henry Kissinger (ex segretario di
Stato), oltre a «esponenti del Fbi». Accolto da una folla di
italo-americani a San Francisco, il pm parla già da politico: «Noi non
siamo nuovi Robin Hood, siamo solo dei servitori dello Stato». Dieci
mesi dopo, riecco Di Pietro «l'amerikano». Stavolta è a Washington,
invitato per un ciclo di conferenze da due think tank di area
repubblicana, l'American Enterprise Institute e il Centro studi
strategici, dove il relatore, Edward Luttwak, lo presenta come «un eroe
per il 92 per cento degli italiani» esprimendo l'augurio che «uno degli
uomini nuovi della Seconda Repubblica possa essere proprio Di Pietro».

Racconterà poi Piero Rocchini, fondatore a metà anni '90 del
movimento politico Mani pulite, embrione dell'Idv: «Quando Tonino tornò
in Italia lo sentii cambiato. Era come se lì negli Usa il nostro
progetto di dar vita a un movimento politico fosse stato accolto con
freddezza. Da quel momento, Di Pietro non parlò più di rinnovare la
classe politica italiana e quello che, nelle nostre intenzioni, doveva
essere un progetto autonomo dai partiti, si trasformò in un discorso di
appoggio. Ebbi come l'impressione che certi circoli americani gli
avessero fatto intendere di preferire un Di Pietro dentro al sistema dei
partiti, anziché fuori...».
Una coincidenza storica si trova: nel 1996 Di Pietro, ancora senza un
suo partito, entra nel governo Prodi come ministro dei Lavori pubblici.
Dirà quell'anno l'ex pm Tiziana Parenti in un'intervista a Repubblica,
querelata da Di Pietro: «Prima di far partire l'onda d'urto di
Tangentopoli Di Pietro è andato negli Stati Uniti, al dipartimento di
giustizia, per avere il viatico, la legittimazione».

L'ultimo viaggio (documentato) negli Usa, tra Washington e la
Florida, è del 2000, quando Di Pietro è capo di un nuovo partito da lui
fondato a San Sepolcro in una sede del Cepu, l'Italia dei valori.
Servono finanziamenti, e siccome in Italia non si trovano, Tonino
comunica ai suoi un «e allora ce ne jammo in America». Una foto lo
ritrae su un divano del «Ponte Vedra Beach Resort» di Miami,
nell'autunno del 2000, insieme a Di Domenico, al facoltoso imprenditore
della Florida Randy Stelk (all'epoca indagato per frode fiscale) e a un
sedicente ingegnere, Gino A. G. Bianchini, che poi staccherà un assegno
post datato da 50mila dollari per il partito (mai riscosso). Misteri su
misteri sulla rotta Molise-Usa.
2- DIPLOMATIKO AMERIKANO CONFERMA: LA SERA ANDAVAMO DA DI PIETRO
Giuliano Ferrara per "Il Foglio"

Eugenio Scalfari intervistò Aldo Moro dopo mesi dal suo assassinio
in un carcere del popolo, e merita il laticlavio a vita. Maurizio
Molinari ha intervistato Reginald Bartholomew un mese prima della morte,
e mentre cercava conferma di quanto l'ambasciatore americano a Roma
(19931997) gli aveva detto, l'intervistato è morto. Tre giorni dopo
esce il dialogo tra i due, avvenuto in un ristorante dell'Upper East
Side di Manhattan.
Reggie Bartholomew dice all'inviato della Stampa: ho messo le cose a
posto, com'era necessario, perché al consolato americano a Milano si
erano fatti mallevadori dell'attacco giudiziario di Antonio Di Pietro ai
partiti politici, che erano al centro di un traffico di finanziamenti
illegali, con metodi barbarici di carcerazione preventiva e obiettivi ed
effetti politicamente destabilizzanti. La conferma è arrivata quattro
giorni dopo la morte del "teste", ieri, e da parte di un vivo, che suona
il pianoforte agli Hamptons, dove vive in ritiro: ecco a voi il diretto
interessato, l'ex console Usa a Milano Peter Semler.

Risultato.
Il capostipite dei magistrati che fanno politica utilizzando mezzi di
giustizia, l'ex poliziotto dalle mani callose e dalla parlata fantasiosa
ma sommamente imperfetta, e dalle manette facili, tramicchiava nella
serie B dei servizi diplomatici (e altri servizi) americani, informava
con largo anticipo sulle sue indagini il signor console, lo vedeva
spesso, e c'è voluto un ambasciatore di carriera del rango di Reggie
per mettere la parola fine allo scandalo sommerso, che era un segreto di
Pulcinella, di un moralizzatore in crociata che faceva sin dall'origine
politica e carriera cercando appoggi esteri contro la classe dirigente
del suo paese.

Particolare
che il buon Tonino nega, per la gola, con parole di smentita
decisamente grottesche, raccolte da Mattia Feltri sempre ieri sul
giornale di Torino. Si può parlare con la Cia, da insider del palazzo
politico, per spiegare e legittimare le scelte di un governo al suo
alleato, sul finire della Guerra fredda (come ha fatto chi scrive,
rendendolo noto alla prima buona occasione). Diverso è sputtanare la
funzione inquirente, cosa non privata ma di rilievo pubblico
nell'amministrazione del diritto penale, intortando e facendosi
intortare da un diplomatico minore ma operativo e fattivo, disgustato
dalla Roma politica e dal suo stesso ambasciatore Peter Secchia, e
voglioso di sangue istituzionale quando l'Italia era diventata
irrilevante perché la Guerra fredda era appena finita.

Se uno vince un concorso ed entra nelle carriere riunite dei pm e dei
giudici, deve lealtà rigorosa al suo codice deontologico e alla sua
funzione super partes, non è un giornalista-insider privato. Quella
lealtà è palesemente mancata, e per ragioni forti. In altra occasione,
secondo la testimonianza di Francesco Saverio Borrelli, Tonino disse
del presidente del Consiglio pro tempore, Silvio Berlusconi: "Io a
quello lo sfascio". Il tipo presiede un carrozzone chiamato l'Italia dei
valori. Un'inchiesta parlamentare sulle gesta di simili pm politici
sarebbe utile. O no?
3- MANI PULITE E QUEI RAPPORTI CON IL CONSOLATO DEGLI
USA: IL VIAGGIO ORGANIZZATO DALL'INFORMATION AGENCY - DI PIETRO: VEDEVO
IL DIPLOMATICO, MA MAI SVELATO SEGRETI IN AMERICA
Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera"
Nel 1992, Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero della Procura di Milano, si recò insieme
all'ufficiale dei carabinieri Roberto Zuliani negli Stati Uniti per una decina di giorni


I MOTIVI
Il Corriere della Sera scrisse che il magistrato di
punta del pool «Mani Pulite» ebbe in quella trasferta fitti colloqui con
gli uomini del Federal bureau of investigation e con alcuni magistrati
federali. Incontri che Di Pietro smentì in modo categorico.
Ufficialmente,
il viaggio dell'allora magistrato fu organizzato dalla United states information agency (Usia) e dalla ambasciata statunitense

Mani Pulite esisteva prima dell'arresto di Mario Chiesa? Qualcuno
sapeva dell'indagine che in meno di tre anni avrebbe portato
all'azzeramento della Prima Repubblica? Vent'anni dopo l'arresto del
presidente del Pio Albergo Trivulzio (17 febbraio '92) sbucano nuovi
interrogativi sulla più grande inchiesta per corruzione della storia
giudiziaria italiana.
Un mistero infittito dalle rivelazioni a La Stampa, pochi giorni
prima della morte, dell'ex ambasciatore statunitense Reginald
Bartholomew e dalle parole dell'allora console a Milano Peter Semler. Il
primo venne inviato a Roma nel '93 per guidare l'ambasciata e
«normalizzare» i rapporti con il nostro Paese, il secondo prese
l'incarico a Milano nel '90 e visse da vicino la stagione di
Tangentopoli. Bartholomew aveva in realtà un secondo incarico. Quello di
spezzare il legame tra gli Usa e i magistrati di Mani Pulite. Perché, a
suo dire, «qualcosa nel consolato americano non quadrava»: la
diplomazia aveva un legame diretto con il pool.


Così, dopo l'insediamento di Bill Clinton alla Casa Bianca, venne
appunto deciso di mandare in via Veneto Bartholomew: «Gli Usa erano
preoccupati della deriva dei magistrati: nell'intento di combattere la
corruzione politica dilagante il pool era andato ben oltre violando
sistematicamente i diritti degli imputati», sosteneva Bartholomew. L'ex
console Semler ha confermato che, in effetti, incontrò Antonio Di Pietro
quando ancora era uno sconosciuto pubblico ministero il quale gli
annunciò alcuni mesi prima dell'arresto che «c'era un'inchiesta su Mario
Chiesa e che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».
Uno scenario che vorrebbe, quindi, l'inchiesta nata a tavolino con
obiettivi ben precisi.
Una tesi smentita per primo dall'ex pm Antonio Di Pietro, oggi leader
dell'Idv: «Non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e
Psi perché nel novembre 1991 già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo
idea di dove saremmo andati a parare».

Da Washington, ricorda Di Pietro, non arrivarono mai pressioni né in
un senso né nell'altro. Voci di eventuali ingerenze americane vengono
smentite con fermezza anche dall'allora magistrato guida del pool
Gerardo D'Ambrosio. «Personalmente non ebbi mai contatti con americani. E
mi battei per il massimo rispetto dei diritti di difesa e contro
detenzioni non necessarie. Gli arresti non venivano decisi dai pm ma dal
gip». Ancora più netto l'ex procuratore capo Francesco Saverio
Borrelli: «Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un
americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai
diritti dell'uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa». Gherardo
Colombo e Piercamillo Davigo si sono invece affidati a un comunicato
del legale Francesco Borasi contro «eventuali diffamazioni».

Di Pietro, tuttavia, non ha negato i rapporti con Semler. «Incontri
cordiali nei quali non violai il segreto istruttorio». Su questo punto
Giampiero Borghini, sindaco di Milano nel biennio della tormenta
('92-93) chiede chiarezza: «Un magistrato che entra in un consolato per
parlare di un'indagine? Se avesse parlato con la diplomazia dell'Unione
Sovietica cosa sarebbe accaduto? Oggi mi rendo conto - risponde Borghini
- che qualcuno sapeva dell'inchiesta, non solo gli Usa. E si smarcò
prima della caduta».
Uomo
chiave della diplomazia Usa a Milano era ed è il consigliere politico
Giuseppe Borgioli. Ben introdotto nelle segreterie di partito e nel
mondo imprenditoriale milanese, era il braccio destro del console
Semler: «Non ricordo nessun episodio in particolare - dice Borgioli al
telefono - ma furono anni di grande cambiamento». Quale poteva essere
l'interesse degli Usa su Mani Pulite? «Bettino non si sbilanciava mai,
ma diceva che l'America non aveva mandato giù la vicenda di Sigonella,
né aveva gradito la politica estera di Giulio Andreotti», sottolinea
Paolo Pillitteri, ex sindaco ('86-92) e cognato di Craxi. Bobo e
Stefania Craxi chiedono a Di Pietro di «vuotare il sacco» e invocano una
Commissione parlamentare d'inchiesta.
4- «COSÌ LE TOGHE DIEDERO INIZIO ALLA GUERRA CIVILE»
Tommaso Labate per il "Corriere della Sera"
ROMA - «Ci faccia caso. In fondo è uno dei punti oscuri di quegli anni. E la domanda, è ancora senza risposta».
Quale domanda, Formica?
«Perché, a un certo punto, Di Pietro decide di lasciare la magistratura?».
Perché, secondo lei?
«Secondo me, Di Pietro capì che quel sistema
di servizi e poteri che aveva alle spalle era svanito. E si chiamò fuori
portando con sé quelle ‘‘verità'' vere o presunte che gli avrebbero
consentito di rimanere a galla com'è stato nell'ultimo ventennio».
Rino Formica - classe '27, fama da lucidissimo analista politico, ex
ministro delle Finanze, una prima fila del Psi di Craxi - interviene
sulle rivelazioni postume di Reginald Bartholomew, l'ex ambasciatore Usa
a Roma morto da pochi giorni, che sostenne di aver spezzato il legame
tra Washington e Mani Pulite.
C'era davvero questo legame?
«Certo. Gli Usa avevano dei problemi
nell'Europa del post '89. Uno di questi era l'Italia. E il consolato di
Milano tesseva la tela col pm Di Pietro».
Dc e Psi non garantivano più Washington?
«Chi aveva governato nel dopoguerra aveva dimostrato una certa stanchezza. Mani Pulite fece
il resto».
Che cosa cambia quando, con Clinton, arriva a Roma l'ambasciatore Bartholomew?
«Clinton
capì che l'Italia, nel biennio '92-93, era un Paese sull'orlo della
guerra civile. C'erano tutte le avvisaglie. Pensi anche alle tv di
Berlusconi».

Schierate con la Procura di Milano.
«Che cos'erano se non vere e proprie armi di guerra civile?».
Di fronte alla guerra civile, insomma, gli Usa rompono con Di Pietro.
«E
puntano sugli eredi di quelle tradizioni storicamente rimaste fuori dal
governo. E li trasformano in politici che rinnegano il loro passato.
Puntano su Massimo D'Alema, trasformandolo grazie a Cossiga nell'uomo
che avrebbe bombardato la Serbia. E puntano su Gianfranco Fini,
trasformandolo nel politico post fascista che avrebbe fatto pace con
Israele. L'Italia, però, pagò un costo altissimo. Soprattutto in termini
di sovranità».